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Oltre il ragionevole dubbio 
(Il caso Forti)
 
Un punto nodale

 

C’e' qualcosa di assai singolare nella valutazione di questo delitto.

Si tratta di un particolare aspetto del movente che rende inutile e insensato l’atto.

Proviamo a scandagliare questo rilievo partendo dall’assunto dell’accusa:

Lo Stato della Florida ha ribadito, nell’ultimo atto depositato il 1° dicembre 2005, che Enrico Forti deve scontare il carcere a vita perche' egli e' l’assassino di Dale Pike.

Testualmente, il procuratore Reid Rubin sintetizza il suo avviso con scarne parole:

 

«Forti uccise Pike perche' quest’ultimo avrebbe interferito con il suo piano volto alla fraudolenta acquisizione dell’intera proprieta' del famoso albergo del padre. Dale aveva viaggiato dall’isola di Ibiza fino a Miami perche' Forti potesse mostrare finalmente il denaro che doveva.

Esattamente quattro milioni di dollari, prezzo questo pattuito quale corrispettivo dell’acquisto. Forti, semplicemente, non possedeva quella somma.

In luogo di mostrare il denaro Forti prelevo' Dale e lo condusse a morte…».  

 

Nello stesso atto, a sole poche righe da queste trancianti asserzioni, lo stesso procuratore Rubin lascia ai giudici questa affermazione:

 

A cagione dell’oramai grave malattia contratta da Tony, la struttura societaria dell’albergo fu mutata. Dapprima Tony aveva creato una societa', la Can Pep Tuniet, per sole ragioni fiscali e di diritto ereditario. L’Hotel Pikes era, pertanto, controllato da una societa' spagnola al cinque percento mentre il restante novantacinque percento era posseduto da una societa' denominata Laurabada avente sede presso l’Hemery Trustees Limited di Jersey nell’Isola del Canale.

La Laurabada possedeva, fino all’anno 1991, il novantacinque percento dell’hotel.

Ma nel gennaio dell’anno 1997, proprio a causa della grave malattia di Tony, quest’ultimo colloco' le azioni della Laurabada presso un’altra societa' sempre dell’Isola di Jersey. Questa societa' si chiama Laffan Trust.

La Laffan possedeva il novantacinque percento dell’Hotel Pikes nel febbraio 1998.   

 

 

Orbene, appare ormai chiaro, grazie alle univoche dichiarazioni dei protagonisti, che:

 

Il vecchio Tony Pike mai era stato formalmente riabilitato dopo l’interdizione dichiarata dalle autorita' giudiziarie australiane. Egli, quindi, in nulla avrebbe potuto liberamente negoziare e in nulla avrebbe potuto giuridicamente disporre.

L’unica societa' che poteva cedere l’intera proprieta' dell’albergo Pikes era la Laffan Trust (e non la Laurabada) e l’esistenza di questa societa' era sconosciuta allo stesso Tony Pike perche' creata mentre egli era moribondo.

Dale Pike non aveva alcuna titolarita' a disporre per conto della Laffan Trust.

L’arrivo di Dale Pike (con in mano la procura del padre, rilasciata davanti al notaio Pina) in nulla modificava lo stato giuridico delle cose perche' chi non ha il potere di disporre di un bene a proprio titolo non puo' certo delegare qualcuno a farlo in sua vece.

Dale poteva soltanto comunicare il recesso dalla cessione della Can Pep Tuniet ma, in quel caso, avrebbe dovuto restituire il denaro e pagare una penale.

 

L’eliminazione di Dale Pike non serviva a nulla nel movente premeditato che la stessa accusa ha ipotizzato nei suoi atti. Era semplicemente inutile…

Il verdetto

 

Il 15 giugno 2000, al termine di un dibattimento durato ventiquattro giorni, la giuria dichiaro' l’imputato Enrico Forti colpevole del reato di omicidio di primo grado e, pochi giorni dopo, il giudice irrogo' la pena del carcere a vita.

Non esiste alcuna sentenza (nel senso del materiale provvedimento che noi italiani conosciamo e commentiamo sui giornali) che esplicita i motivi della condanna dell’imputato.

In appendice troverete una brevissima guida per comprendere il funzionamento del processo negli Stati Uniti d’America. Infatti, e' difficile – se non ci si pone nell’ottica del sistema – accettare un processo che consente di mandare qualcuno a morire sulla sedia elettrica senza una spiegazione scritta del perche' i giudici abbiano deciso cosi'.

Gia' vedo nei vostri occhi uno sguardo interrogativo a proposito del significato di questa affermazione…

Ma e' esattamente in questo modo che vanno le cose.

A differenza di cio' che avviene in Italia (dove la nostra Costituzione prevede che tutti i provvedimenti che limitano la liberta' delle persone, in ogni modo e in ogni tempo, debbano essere adeguatamente motivati) negli Stati Uniti le giurie non devono motivare alcunche'. Allo stesso modo, non deve motivare nulla nemmeno il giudice che irroghera' la pena di morte o la piu' “mite” condanna al carcere perpetuo.

Non e' opportuno svolgere una valutazione critica sulla questione. Non e' questo un saggio di diritto processuale comparato, ne' un manuale didattico. Ma e' opportuno rilevare che mai nessuno, a oggi, ha sollevato problemi su questo modo di procedere, soprattutto nelle organizzazioni internazionali (per esempio l’ONU) che si occupano di diritti umani.

La mancata motivazione ha una sua coerenza con la scelta di mettere la vita o la morte dell’imputato nelle mani di una giuria formata soltanto dal popolo degli Stati Uniti.

Per quale motivo il popolo dovrebbe spiegare cio' che e' parte della sua sovranita'? e' come se il re, in una monarchia, dovesse spiegare da cosa promanano i suoi poteri. Sarebbe semplicemente illogico.

Perche' mai motivare per iscritto qualcosa che e' implicito nella stessa decisione?

e' opportuno chiarire meglio il contenuto di quest’ultima domanda.

Se il giudizio non e' basato sul libero convincimento (come avviene in Italia), ma su evidenze probatorie che devono superare la soglia del ragionevole dubbio, la motivazione e' implicita nella condanna: appare evidente che la decisione di colpevolezza deriva dalla constatazione che le prove hanno superato il ragionevole dubbio. Ecco tutto!

Si potrebbe obiettare: ma se il giudice non spiega la sua decisione, come puo' la difesa comprendere se c’e' stato un errore nel procedimento logico o probatorio che ha portato alla condanna? Come si possono manifestare i motivi d’appello se il giudice non ha reso per iscritto i passi logici che sostengono la sua decisione?

Domande forse ragionevoli, ma vacue, perche' il popolo, nel sistema americano, non puo' commettere errori nella valutazione delle prove.

Se mai vi fossero errori nelle procedure, ci penserebbe il giudice professionista, ma – a parte questo caso – il merito delle prove, una volta deciso, non puo' essere appellabile.

Per quale motivo il popolo che ha gia' deciso dovrebbe decidere in modo differente?

Una diversa e successiva decisione sarebbe incoerente e contraddittoria nel sistema.

Cosi' il sistema giustifica se stesso e si manifesta forte della sua democrazia; se non altro perche' questo modo di decidere la giustizia (chiamato common law) promana, storicamente, da una nazione come la Gran Bretagna, che ha le regole piu' antiche, accettate e consolidate del mondo.

Pero', nel contesto che riguarda l’imputato (oramai il condannato) Enrico Forti, questa mancanza di motivazione della sentenza rende tutto ancora piu' difficile.

Il labirinto giudiziario, a quel punto, diventa realmente inestricabile: come potra' mai l’imputato sapere se la sua condanna e' dovuta alla sabbia trovata sul gancio di traino, a un valido movente economico oppure alle sue stesse menzogne?

La risposta e' semplice: secondo il sistema americano non si deve sapere nulla di tutto cio'. Quello che Forti deve conoscere e' sintetizzato nelle parole che il pubblico ministero Rubin, alla fine della requisitoria, pronuncia rivolto alla giuria: «Ditegli che, sulla base delle prove e sulla base della ragionevolezza, egli e' colpevole, che e' arrivato il tempo di accettare la responsabilita' per quanto ha fatto… ditegli che quel tempo comincia adesso».

Ecco tutto quello che l’imputato (che rischia la sedia elettrica) deve sapere…

Anche il piu' fedele alleato – e io mi annovero tra loro – dell’eccellenza americana non puo' che rimanere perplesso davanti a questa realta' che nasconde attraverso la forza del sistema la debolezza della ragione nel senso cartesiano.

La perplessita' muove da motivi tecnici, e il processo Forti li evidenzia tutti.

Vediamo perche'.

L’accusatore invita la Corte a condannare sulla base della ragionevolezza e delle prove raccolte durante il dibattimento. Quindi, l’invito riguarda la spiegazione di un percorso logico (“la ragionevolezza”) e la rivisitazione delle prove offerte dall’accusa.

Tutto cio' che chiede l’accusa e' che la giuria ratifichi la certezza (che gia' la stessa accusa ritiene di avere acquisito e documentato) della colpevolezza senza alcun dubbio.

In altri termini, lo Stato della Florida chiede ai suoi giudici di mettere in atto quegli operatori logici, di tipo matematico, che il filosofo Rene' Descartes aveva definito – gia' quattrocento anni fa – come indici di una corretta amministrazione del dubbio: evidenza, analisi, sintesi, enumerazione e revisione.

Insomma, lo Stato sta chiedendo ai suoi giudici la motivazione… perche' la motivazione altro non e' che il prodotto formale di queste procedure. e' lo strumento che permette di conoscere il modo in cui la giuria ha argomentato, attraverso i processi logici, il superamento del ragionevole dubbio. La motivazione e', quindi, la traccia indelebile dell’uso della ragione: essa racconta perche' va accolta la certezza dell’accusa e va, invece, respinto il dubbio della difesa.

Fuori da questo “resoconto”, tutto rimane lasciato alle libere interpretazioni.

Portando alle estreme conseguenze questo ragionamento, si potrebbe affermare con serenita' che la motivazione del verdetto o della sentenza e' maggiormente necessaria in un sistema come quello americano rispetto a quello italiano, in cui il libero convincimento potrebbe esimere i giudici dalla motivazione (ti condanniamo perche' ci siamo liberamente convinti della tua colpevolezza e questo deve bastare).

Poi c’e' un’altra ragione che dovrebbe suggerire l’adozione della motivazione scritta.

Una volta chiuso il processo, la decisione si libera dal suo contesto e diventa Storia. Diviene l’unico strumento per comprendere un episodio criminale che, se condiziona tragicamente i destini dei singoli, a volte puo' pure determinare le sorti di un’intera collettivita' nazionale (si pensi all’omicidio di un importante uomo di Stato).

Senza la motivazione del verdetto, la Storia non avra' mai la verita' scritta dai giudici, ma soltanto la ricostruzione che la pubblica accusa ha affidato alla decisione della Corte. Per ricostruire quella decisione si dovranno, ogni volta, ricomporre interamente le prove.

Non c’e' spiegazione scritta del motivo che ha indotto i giudici americani a condannare Enrico Forti al carcere a vita: si puo' dire che abbia avuto un giusto processo?

Continua...  Conclusum