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Nel prologo vi avevo invitato a essere, voi stessi, supremi giudici del caso. Adesso avete elementi sufficienti per formare il vostro giudizio perche' avete conosciuto tutte le facce di questo poliedro multiforme. Pero', prima di far calare il sipario conclusivo sulla vicenda Forti, e' opportuno riportare ancora poche e semplici opinioni sulle vecchie teorie di Descartes e la sua idea secondo cui vi sara' salvezza per la ragione fino a quando il dubbio la governera'. Qual e' il dubbio centrale di questo processo, il vulnus di questa condanna? Il dubbio e' che alla fine delle sue menzogne l’imputato Forti abbia detto la verita'. La verita' dell’imputato Forti, pero', e' proprio quella che crea la frattura della ragione e disarticola una corretta interpretazione del dubbio. Parole e concetti molto complessi. Provo a descriverli in modo diverso. Con la sua ultima dichiarazione su cosa accadde nel tardo pomeriggio del 15 febbraio 1998, l’imputato sposta il dubbio dal fatto storico (l’accompagnamento della vittima) al momento psicologico (la sua consapevolezza del fatto che Dale sarebbe stato ucciso). Su questa tesi l’accusa sembra concordare perche', alla fine, puo' determinare la condanna a morte. Come dice il pubblico ministero Rubin: «He lead a lamb to slaughter», ovvero Forti ha condotto la vittima nelle mani del suo carnefice, letteralmente «al macello». L’imputato, pero', ricostruisce la cosa in questo modo: «Si'. e' vero. Accompagnai Dale all’incontro con il suo assassino, ma non potevo supporre che sarebbe finita cosi'». Se non e' la verita', e' una formidabile mossa processuale per uscire dall’empasse. Il dubbio che Dale potesse essere ucciso era nato nella testa dell’imputato e questo dubbio, in modo automatico, si trasmette dopo il dibattimento nelle teste di tutti i giurati seduti attorno al tavolo della camera di consiglio: e' questo il ragionevole dubbio. Vi sembrera' semplicistico, ma il processo contro Forti e' tutto qui. In Italia si chiama valutazione del dolo eventuale. Ma non voglio complicarvi le idee. Sappiate soltanto che e' una delle operazioni piu' ardue per l’accertamento della responsabilita'. Il dubbio sulla consapevolezza – chiamato anche elemento psicologico – e' lo stesso che inchioda la polizia di Miami per tutti i venti mesi in cui Enrico Forti resta in liberta' dopo il ritrovamento del cadavere di Dale Pike. La sabbia sul gancio di traino dell’automobile riporta il processo sul fatto storico (la presenza sul luogo dell’omicidio). Da li' si arriva alla cattura. Ma la prova che riguarda la sabbia assomiglia molto a un castello fatto della stessa materia. Questo e' (e restera') un processo indiziario, circostanziale, di ricostruzione psicologica. E il dubbio manifestato dall’imputato su cosa sarebbe accaduto a Dale – che diventa anche il dubbio della polizia, che sara' il dubbio del processo, che si trasporra' nelle dinamiche decisionali dei giurati – e' lo stesso dubbio che doveva sostanziare pure il verdetto, se si fosse voluto onorare il principio di una decisione assunta al di la' di ogni ragionevole possibilita' di errore, sempre possibile negli accadimenti umani. Ma tutti e dodici i giurati non hanno alcuna incertezza: l’imputato e' colpevole. Avrete notato la progressione matematica. e' quella che il filosofo del dubbio invitava ad applicare ai processi logici per renderli impermeabili all’errore. Questa logica cartesiana, verificatrice del dubbio, a Enrico Forti non e' stata concessa. Non gli sono stati concessi il dubbio, il giusto processo e una comprensibile decisione. Tre buone ragioni per riflettere sulla sua colpevolezza e sulla condanna a vita. Un’altra buona ragione per riflettere sulla pena di morte.
Sipario
Molte altre volte, nei pomeriggi d’estate, ho attraversato il golfo di Mondello. Sarei esagerato se dicessi che ogni volta che mi avventuro per mare penso alle strane coincidenze della vita e alla drammatica storia di Chico Forti. Ma ogni tanto, quando scende la brezza di ponente e sono al gran lasco in direzione del porto del paese, rivivo la scena di quel windsurfer che mi raggiunge da lontano. Mi sembra ieri, perche' io credo davvero che esistano due memorie dentro di noi: la memoria del cuore e la memoria della ragione. Quella del cuore riesce a vibrare per un grande dolore o al ricordo di una carezza, di un profumo o al sussurro di un verso d’amore. A questa memoria, che chiamerei delle passioni, si oppone la memoria dei fatti che risiede, invece, nel cervello. La prima resta bambina e, leggera, vaga in noi; la seconda invecchia e si stratifica come i cerchi concentrici di una sequoia. Ecco, allora, che quando si ricreano esattamente le condizioni di quel pomeriggio del 19 luglio 1992 ripenso a Chico che mi annuncio' la strage di Paolo Borsellino e della sua scorta. Medito, ancora una volta, sul nostro dialogo sulla giustizia lasciato al silenzio del mare, alla brezza lieve di un tramonto appena accennato e all’ascolto di chi puo' udire tutte le voci del mondo. Una strana oppressione, a quel punto, si impossessa dell’animo. La morte di Paolo Borsellino e dei martiri a lui vicini ha avuto giustizia? La morte di tanti altri, in questa «terra bella e disperata», come la definiva Chico, ha avuto giustizia? Ed Enrico Forti, al di la' dell’oceano, ne ha avuta? Cosi' immagino un nuovo dialogo con lui, mentre dirigo le prue del catamarano verso la costa e gia' intravedo lo sventolare orgoglioso delle bandiere del circolo velico dell’Albaria. «Hai visto, Chico, che avevo ragione io? La giustizia non e' di questa terra ne' di altre terre migliori di questa. Per il semplice motivo che e' affidata all’uomo e alla sua fallibilita'. Mi capisci adesso?». «Si', avevi ragione tu… ma resta il fatto che questi pensieri non dovrebbero nascere nella testa di un magistrato. Perche' se uno come te, per primo, non crede nella giustizia, a noi cosa resta? Ora piu' che mai, dalla prigione in cui mi trovo, non ho altra scelta che lottare per avere giustizia. Se non avessi questo, sai quale sarebbe l’unica alternativa?». «Posso solo immaginarla… ma non pronunciare quella parola, Chico. Sarebbe stupido darti da solo cio' a cui ti abbiamo sottratto arrampicandoci sugli specchi di alcune regole imperfette». «Non penso di avere molte alternative… Mi resta l’amore per i miei figli, per la mia famiglia. e' la ragione piu' grande per cui lottare». «Ti aiutero' raccontando la tua storia. E sappi che diro' tutto, senza particolari riguardi ne' paura di farti male. Cercando la verita' oltre il ragionevole dubbio che altri non hanno saputo o voluto vedere. Anzi, vuoi che ti dica tutta la verita', e solo quella, fino in fondo?». «Da sportivo a sportivo. Dimmi pure…». «I tuoi avvocati non sono stati in grado di dimostrare la tua innocenza. Penso pero' che tu abbia delle grandi responsabilita' in questa vicenda. E sono convinto che sei stato vittima dei tuoi stessi errori. Quella pistola non la dovevi comprare e l’amicizia con Thomas Knott… era proprio da evitare. E poi la verita' su quel “favore” chiesto da Knott la mattina del 15 febbraio 1998 avresti dovuto metterla subito a verbale davanti alla polizia di Miami». «Come darti torto…». «Pero', di contro, credo che il processo che ti ha condannato sia stato ingiusto e che esistesse un ragionevole dubbio che tu non fossi l’assassino. Ecco cosa penso». «Sportivamente accetto il responso, ma – e' inutile dirlo – non sono d’accordo. Tu stai ragionando come hanno ragionato i miei giudici. Vai per sensazioni e non per riscontri. Ho mentito, e' vero. Ho mentito su qualcosa di assai importante per paura. Ma non ho ucciso Dale Pike». «Sai, Chico, per fortuna il mio pensiero conta poco in questa vicenda e spero per te che la Corte accetti la revisione del giudizio e che tu abbia finalmente un processo giusto e l’occasione di dimostrare la tua estraneita'». «Comunque sia, ti ringrazio per il disinteressato aiuto. Tu mi insegni che la speranza e' l’ultima a morire. E finche' sono in vita avro' la possibilita' di battermi per dimostrare la mia innocenza. Non posso perdere la stima di me stesso. Per me, ma soprattutto per i miei figli». «Sono un magistrato. Ho giurato fedelta' all’Italia e alle sue leggi. E poi a me piacciono le cose coerenti, quelle che riescono a superare ogni dubbio. Insomma, gli Stati Uniti sono una nazione che si definisce credente e che ha nello stemma il motto In God we trust. Invece le sue leggi violano palesemente il quinto comandamento quando applicano la condanna a morte». «e' cosi'. Allora manda un saluto da parte mia a tutti quelli che credono nella mia innocenza». «Lo faro'. Ma adesso vado. Devo leggere una sentenza. Ti sembrera' incredibile, ma e' proprio quella del processo per cui andai a Miami mentre tu eri sotto accusa». «E come e' finita con l’imputato dall’alibi perfetto? Avevi detto che era accusato di avere ucciso con due colpi di pistola alla testa un ragazzo invalido». «Proprio cosi'. Ma se ti dicessi come si e' conclusa la questione, potresti restarci male. Non eri tu che dicevi che il sistema della giustizia americana e' migliore di quello italiano?». «Dicevo e pensavo tante cose prima di essere rinchiuso qui a marcire». «Ti sembrera' strano, ma sono riuscito a far condannare all’ergastolo l’imputato. Ho smontato il suo alibi pezzo per pezzo. A Miami ho trovato le prove dei suoi passaggi attraverso la frontiera libera di Nassau e ho dimostrato che usava la carta verde americana per muoversi sul confine senza essere registrato. Ho ottenuto il carcere a vita. La stessa cosa che un altro pubblico accusatore ha ottenuto per te». «Strani giochi del destino… ma perche' ne dovrei soffrire?». «Per quello che ti dico adesso: ho voluto quella condanna e ancora oggi sono convinto che l’imputato fosse l’assassino, anche se riconosco che il suo alibi creava un dubbio notevole. Pero' la Corte d’Assise d’Appello ha completamente ribaltato la sentenza di primo grado e la Corte di Cassazione ha confermato l’assoluzione. Cosi' alla fine hanno assolto l’uomo che io credevo fosse l’omicida… quello che tutta la Corte di primo grado riteneva fosse il colpevole. Hanno creduto al suo alibi e lo hanno assolto». «Non so cosa pensare. Tu dici che quello era veramente colpevole. Io mi sto battendo da anni per dimostrare la mia innocenza. Comunque, questa storia mi fa ben sperare per il futuro…». «Davvero? Riflettici: qui in Italia ci sono tre gradi di giudizio e c’e' modo e tempo per correggere l’errore giudiziario. Negli Stati Uniti il principio e' che decide il Popolo, e il Popolo, si sa, puo' pure sbagliare, ma non puo' smentire se stesso. Sembra una follia, ma e' cosi'. Ecco perche' laggiu' non e' prevista la motivazione delle sentenze di condanna e non si riconosce un vero e proprio secondo grado del giudizio ma una specie di revisione solo nel caso di macroscopici errori di diritto. In definitiva e di fatto il popolo americano non puo' sbagliare…».
Il vento raccoglieva quei pensieri naufraghi. Virai. Ero solo davanti all’orizzonte.
Continua...
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