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di Alessandra Viola Del resto, Velasco amava spesso ripetere alle lezioni dei corsi allenatori ai quali veniva continuamente invitato, che la cosa più importante per raggiungere un obiettivo, è fissarne uno difficile ma non irraggiungibile. Per mettersi alla prova, ma senza scoraggiarsi inutilmente. E questo è stato evidentemente lindirizzo seguito anche da Frigoni e Bebeto, consci entrambi che nello sport ci sono raramente grandi sorprese ed i migliori risultati sono il frutto di anni di preparazione, non il boom di una stagione. Non cè niente da inventare: quasi nessuno dei grandi campioni è venuto su senza passare dalle scuole storiche della pallavolo, Treviso, Cuneo o Falconara; e del resto per anni le migliori atlete sono uscite dai vivai della Toscana e dellEmilia Romagna. Oggi, comunque questa rigida divisione regionale non esiste più. Lattenzione per le nuove promesse in questi ultimi anni è divenuta infatti sempre più marcata, ed è stata infine regolamentata, per cui ormai, grazie principalmente alla politica della federazione che ha voluto rendere obbligatorio affiancare ad ogni squadra di serie A una Juniores che disputi la Junior League a livello nazionale, le migliori palestre italiane sono quelle dei club di serie A. Lidea è quella di creare ed istituzionalizzare (è il caso, per antonomasia, del famoso Club Italia) una sorta di vivai dove curare e far crescere giocatori e giocatrici particolarmente promettenti. Di costruire insomma, delle scuole dove le giovani promesse dello sport siano seguite da tecnici preparati e gli atleti siano garantiti dalla tradizione e dalla serietà delle società di serie A. Un po'come accade con i college negli Stati Uniti, dove ad ogni adolescente si prospettano, a seconda delle sue potenzialità, diversi istituti, più o meno rinomati, tra i quali scegliere. Mentre la federazione rema in questa direzione, in Sicilia un comune ha però deciso di muoversi contro corrente, lanciando una grande operazione pubblicitaria. E il caso di Palermo e della sua Iveco, neo trapiantata squadra (e società, dirigenti compresi) di A1, la cui vicenda, lungi da noi lidea di stigmatizzare il semplice, quanto diffuso, acquisto di un titolo di serie, è davvero singolare. Il Comune, in questa occasione, sollecitando lintervento di un imprenditore (meglio se del nord, come specificavano i giornali dellisola qualche mese fa), affinché acquistasse il titolo, ha chiarito infatti che, oltre a quello, si sarebbe dovuto provvedere anche a giocatori, allenatori e dirigenti. A tutto, insomma. Tranne che al palazzetto dello sport, perché quello, cioè ledificio di recentissima costruzione che si intendeva pubblicizzare con lintera operazione, quello, lo avrebbero trovato sul posto. Estoria di questi giorni invece, che le cose non sono andate così e lIveco, prontamente atterrata da Ferrara in Sicilia a raccogliere la sfida e i contributi, è dovuta emigrare prima a Catania e poi a Trapani, cominciando così solo poche settimane fa ad allenarsi in città. Non al palazzetto, ovviamente. Perché il sogno nel cassetto di tutti gli sportivi palermitani, quel mega-impianto che si è pensato prima di affidare in gestione che a tirare su, ancora non esiste: lo stanno costruendo. Troppo facile, e del resto inutile, lasciarsi andare in commenti su ritardi e lungaggini tecniche e burocratiche, vizi d'altra parte non siciliani ma nazionali, che tengono ancora con il fiato sospeso appassionati ed atleti impazienti. Tuttavia loperazione in sé, se fosse riuscita intendo, solleva tuttora alcuni interrogativi. Lintento, oltre quello di promuovere la pallavolo, era quello di portare a Palermo, città ormai priva di una squadra di calcio fortemente rappresentativa che canalizzi lattenzione degli sportivi e dei media, uno sport altamente spettacolare, per riempire, con il prevedibile seguito di tifosi, il nuovo palazzetto da 5.000 posti. Tutto sommato niente di strano, non fosse per il fatto che questanno, dopo anni di campionati di vertice in A2, una squadra di pallavolo in serie A1 cera già. Una squadra che lanno scorso riempiva ogni ordine di posti (in tutto 550) al Paladonbosco e che da questanno è costretta invece anchessa ad emigrare a Trapani per le gare casalinghe, perché la federazione non ha riconosciuto lagibilità allex campo di gara (troppo poco capiente per il pubblico) e che è stata esclusa al contempo dalla gestione del futuro palazzetto, in favore di una struttura più piccola (1.300 posti): il Palazzetto dellUditore, che, strano ma vero è ancora in costruzione. Alle sue spalle una società come poche in Italia, un vivaio, uno staff tecnico e dirigenziale, uno sponsor, consolidati da anni di presenza sulla scena siciliana e nazionale. E allora, si sono chiesti in molti, che bisogno cera di chiamare da fuori unaltra società, un altro imprenditore? La Marsì è una squadra femminile, ecco tutto. Non può garantire lo stesso seguito di una squadra maschile di pari categoria. E qui mi fermo, sulla soglia di commenti che potrebbero espormi dal rischio di passare per accesa femminista, ad anacronistica paladina della lotta contro lo show business. La questione invece è molto più ampia e complessa, ed investe tutta la concezione della politica, sportiva e non. Perché su un progetto che finisce, non intenzionalmente, è ovvio, per mettere in ombra una squadra che è il frutto di anni di sacrifici e investimenti (a fondo perduto, pare il caso di sottolineare ora), cala immancabilmente lombra di poca lungimiranza. Non si cancellano, o non si dovrebbero, con una pioggia di incentivi di varia natura, le fatiche e le speranze di un imprenditore, Pietro Murania, inventore di una delle più conosciute aziende siciliane (la Riokem), da sempre con il sogno dellA1. Ma che esempio sarà per lo sport siciliano? Come convincere, dopo questa trovata, nuovi imprenditori a sponsorizzare delle squadre? Col rischio magari che dopo cinque o sei anni, raggiunta, facciamo il caso, la massima serie, salta fuori qualcuno con lidea di comprare una intera società e di affidarle pure in gestione la struttura migliore che cè, per fare più pubblico. A cosa si deve la miopia di un progetto che mira a mettere su e a tenere in piedi una 'struttura' senza radici nel tessuto cittadino, mentre si cura poco, o nulla, di promuovere altre prospere realtà sportive? Perché non investire invece nel completamento dei lavori del palazzetto, o nel potenziamento di società locali? La risposta possibile pare una sola. La colpa è dellendemica predisposizione allassistenzialismo, quella piaga dalla quale la Sicilia sembra non voler guarire mai. Quella radicata presunzione che sia meglio cercare un prodotto pronto e finito, che ovviamente venga da fuori, perché risanare un prodotto locale, oltre che aleatorio, può risultare più costoso che conveniente. Salvo poi dover riconoscere, facendo pubblicamente ammenda, che la soluzione era lì, sotto gli occhi, e che sarebbe bastato sfruttare meglio le risorse a disposizione, invece di frugare nel cappello a cilindro. |