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Ci sono fatti, date e circostanze che si scolpiscono nella memoria in modo indelebile. La prima volta che incontrai Enrico Forti, detto Chico, era una caldissima domenica d’estate. Il 19 luglio 1992, alle diciotto circa. C’è un golfo dove il mare è caldo e cristallino. Se chiudi gli occhi, se ti fai accarezzare il viso dalla brezza di ponente che già dal primo pomeriggio increspa la superficie dell’acqua, puoi fantasticare di trovarti su un atollo solitario e non a pochi chilometri dal centro di una delle città più caotiche d’Italia. Questo luogo incantato è Mondello. La parola deriva dall’arabo Al-Mondellu Marsa-at-tin: pantano, porto paludoso. E così doveva sembrare circa un secolo fa, prima della bonifica, quando viaggiatori da tutto il mondo, dopo aver letto Goethe, venivano a visitare il Pellegrino, «il più bel promontorio del mondo» che sovrasta il golfo. *** (Inserire verità storica bonifica) Chi ama la compagnia del vento e cerca di interpretare i segreti sempre mutevoli della sua alleanza, sa che il mare di Mondello è la migliore palestra per esercitarsi nella vela. Ebbene, alle diciotto del 19 luglio 1992 ero proprio immerso in quella beatitudine. Solcavo il centro della baia, al timone di un piccolo catamarano da sedici piedi. Posso pure ricordare l’andatura di lasco verso la borgata marinara perché, in quell’istante, notai una tavola a vela condotta da braccia esperte. Inseguiva la mia scia. Saltava sulle piccole onde prodotte dai miei scafi, le tagliava da destra a sinistra sfruttando quel movimento per aumentare la velocità del surf. Si distendeva con la schiena quasi del tutto a contatto con la superficie del mare e da quella non facile posizione riusciva a effettuare velocissime strambate, mure a dritta e mure a sinistra, senza mai mostrare la minima incertezza. Ci sono sensazioni che nascono come risultato empatico di passioni comuni o di esperienze condivise. È questo il dono naturalmente legato alla nostra dimensione umana. Per qualche attimo mi sentii trasportato su quella tavola come se io stesso ne avessi diretto i movimenti, come se avessi giocato sul filo perennemente instabile della liquidità. Pensavo che quel surfista volesse cominciare l’ingaggio e, come accade tra la gente di vela, avesse voluto lanciare un guanto di sfida immaginario su un improvvisato campo di regata. Sentii, invece, quello sconosciuto gridare più volte il mio nome. Virai a vento. Mi arrestai mollando fiocco e randa. Guardai l’orizzonte e cercai con il timone di stabilizzare gli scafi contro il moto frastagliato delle onde. In quella posizione, attesi che si avvicinasse ancora un po’. L’orizzonte… a volte, l’orizzonte geografico del mare è molto simile a quello degli eventi umani. Ti appare terso e chiaro proprio nel momento in cui giganteschi fortunali si addensano al di là del visibile. Infatti lo sconosciuto surfista stava per spingermi nel mezzo di una della più violente tra le tempeste. Un evento che, come un ostro dirompente, proveniva da terra perché lì era stato generato da qualcosa che nulla aveva a che spartire con la natura: il prodotto del male dell’uomo. Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta erano stati massacrati da pochi minuti. Era quello il mio orizzonte doloroso.
***
Proprio a luglio ero arrivato alla Procura della Repubblica di Palermo e Paolo Borsellino era il mio procuratore aggiunto. «Sei tu Lorenzo? Lorenzo Matassa? Scusami, scusami tanto… Ti stanno chiamando dalla spiaggia». Il surfista si avvicinò al catamarano con una manovra veloce, un gesto da grande atleta di quella disciplina. Si sedette sullo scafo di destra e mi spiegò il resto, trasformando d’un tratto il catamarano alla deriva in una zattera naufraga dei pensieri. «Un’esplosione enorme. E morti. Tanti. Devi andare». Mi strinse la mano con un gesto che non era solo di saluto, ma anche di partecipazione commossa. Gli chiesi il nome. Me lo disse, ma non lo memorizzai immediatamente. Avrei avuto tutto il tempo per farlo, in seguito. Era Chico Forti.
***
La notizia della strage di via D’Amelio pietrificò dentro di me un groviglio di tristezza che ancora oggi, dopo tanti anni, non si è sciolto. Però non mi impedisce di ricordare le uniche parole che scambiai con Forti. «Oh Dio! È terribile… Grazie di essere venuto fin qui. Grazie». «Non mi devi ringraziare per così poco. Io ammiro la gente come te, che rischia la vita per un ideale. Però… ti giuro che a volte non capisco… Sarà perché non sono siciliano». «Di dove sei?». «Di Trento. Ma sono innamorato di quest’isola. Mi rendo conto che forse non è il momento opportuno per esprimere giudizi o critiche, però, ripeto, non vi capisco…». Mentre lo ascoltavo, predisponevo già le manovre delle vele per la più veloce tra le andature e la via più diretta di ritorno. «Cos’è che non capisci?». «Come può una terra essere così bella e così disperata…». «Interrogativo legittimo». «…e perché è tanto difficile tenere in piedi la giustizia, qui». Avevo concluso le manovre di randa e fiocco. Tesi le cime e iniziai a muovermi ad andatura veloce, al traverso, in direzione della spiaggia. Perché è così difficile tenere in piedi la giustizia in Sicilia. La domanda mi accompagnava. Già, perché? Procedemmo per qualche secondo con andature parallele, sollevando spruzzi di mare che ci facevano socchiudere gli occhi. Poi mi venne in mente una risposta. La gridai al mio nuovo conoscente ma, considerate le circostanze, forse lui non mi sentì e la lasciai all’infinito movimento del mare o all’ascolto di chi, secondo la fede, può sentire tutte le voci del mondo. «A questo interrogativo potrei dare la più semplice tra le risposte», urlai. «La giustizia non è di questa terra né di altre terre migliori di questa. È affidata all’uomo e alla sua fallibilità…». «Cos’hai detto? Sei troppo lontano!». Il surfista cercò di orzare per avvicinarsi di più al catamarano. Gridai più forte. «Dicevo che la giustizia non è di questa terra…». «Non è un pensiero da magistrato». «No. Lo ammetto. Forse è un’idea persino eversiva per un magistrato. Ma non bisogna mai confondere la giustizia con l’amministrazione della giustizia che, come tutte le cose umane, è soggetta a errori e anche a orrori». «Allora faccio bene ad andarmene a vivere negli Stati Uniti». Il surfista tacque, forse in attesa di un mio parere. «Non lo so», dissi. «In America sono morti i Kennedy, Martin Luther King, gente di pace, di giustizia. E li hanno ammazzati. Come vedi la questione non è semplice. Cambiare continente forse non cambia le cose». «Sarà… Però io ci vado. Lì, se sbagli, la legge ti raggiunge ovunque e ti fa pagare quello che meriti. È l’unica certezza che può tenere unito un popolo di duecentonovanta milioni di persone, di tutte le razze e di religioni diverse, dico io. Cinquanta stati tra due oceani e sei fusi orari di differenza. Se non sono la legge e la giustizia che possono tenere insieme tutto questo…». «Forse hai ragione. Magari un giorno ci rivediamo là…». Fu la prima volta che incontrai di persona Enrico Forti detto Chico.
***
Ritrovai Forti otto anni dopo, nella sua nuova terra promessa: gli Stati Uniti. Ho detto ritrovai – e non incontrai – a giusta ragione. Nel 2000 andai in Florida per l’esecuzione di quella che nel codice di procedura penale italiano è definita commissione rogatoria internazionale. In altre parole, si chiede alle autorità della giustizia straniere di avere un aiuto, una cooperazione per poter eseguire attività che soltanto il Paese ricevente può garantire. Chiaramente, tutto ciò comporta l’attivazione di complesse procedure tecniche in cui le ambasciate e i consolati, a volte, offrono un supporto organizzativo fondamentale. Lavorai per circa una settimana a stretto contatto con il Consolato italiano di Miami. Il caso che istruivo era davvero incredibile. Si trattava di un uomo accusato di omicidio in danno di un ragazzo invalido: due colpi alla nuca avevano chiuso la sua breve e sfortunata vita. L’omicidio era avvenuto a Palermo. Molte fonti di prova accusavano l’imputato, ma il suo alibi era di quelli apparentemente insuperabili. Nei giorni che avevano preceduto l’omicidio, il presunto assassino si sarebbe trovato in Florida, a Miami. Così era indicato, a chiare lettere, dal timbro d’ingresso stampigliato dall’ufficio immigrazione americano nel suo passaporto italiano. A quella data, inequivocabile, non aveva fatto seguito il rientro dall’America. Il primo ritorno dagli USA dell’imputato aveva coinciso con il giorno del suo arresto all’aeroporto di Roma. Se quell’uomo si trovava a Miami non poteva avere ucciso a Palermo. L’alibi era perfetto. È giusto definirlo insuperabile. Ma lo zio della vittima era uno degli “uomini d’onore” più importanti di Cosa Nostra. Era colui che per conto dell’organizzazione criminale aveva eseguito omicidi eclatanti. Lui non aveva dubbi di sorta sul fatto che a uccidere il nipote fosse stata la stessa persona che per i timbri ufficiali si sarebbe, invece, trovata a Miami. L’alibi che ci bloccava lo faceva sorridere. Ai suoi occhi, noi magistrati eravamo degli ingenui. Ci raccontò di un alibi che lui stesso si era creato nel caso di uno degli omicidi eccellenti per cui era stato assolto con la formula più liberatoria «e con l’applauso finale» (così diceva…). «Dottore… dovevo ammazzare Caio. Lo dovevo ammazzare a Mondello perché quello era il mandamento di mia competenza. Allora, che feci? Mi procurai un cantiere di lavoro nella borgata. Ma non un cantiere qualsiasi… era quello per la ristrutturazione della casa del sindaco… Se lo ricorda? Un suo collega magistrato che in quel momento faceva il sindaco… Il giorno dell’omicidio mi feci vedere in cantiere da tutti gli operai. Avevo detto a tutti che avevo fissato un appuntamento proprio con il padrone di casa, cioè col sindaco e con la moglie e feci finta di aspettarli inutilmente per una buona mezz’ora. A tutti dicevo che mi avevano piantato, che non si faceva così, che bisognava rispettare chi lavora. Nel frattempo arrivò il mio complice, indossammo i caschi e in dieci minuti l’omicidio era fatto. Dopo, tornai al cantiere e continuai a inveire, di fronte ai miei operai, contro i proprietari che non avevano rispettato l’appuntamento. Questi ultimi arrivarono di lì a poco. Si scusarono per il ritardo e presero atto della circostanza che io ero rimasto lì, in attesa, per tutto quel tempo. Mi dissero che il loro ritardo era dovuto a un omicidio che si era consumato poco lontano… Io ribattei che un appuntamento è un appuntamento anche se muore qualcuno. Morale della favola, egregio dottore, io per quell’omicidio non sono mai stato neppure sospettato e quando ho cominciato a parlarne, più di un esperto è rimasto a bocca aperta… Mi ascolti, dottore, se l’assassino di mio nipote era a Miami, io sono Frank Sinatra. Accerti tutte le circostanze, tutti i particolari e si renderà conto che quel tizio era qui a Palermo ad ammazzare mio nipote». Verificai ogni dettaglio dell’espatrio e, in effetti, alcuni tasselli erano fuori posto. L’imputato aveva doppia cittadinanza e quindi due documenti d’identità. L’imputato aveva dichiarato di avere smarrito il passaporto alcuni giorni prima dell’omicidio e aveva ottenuto in tempi rapidissimi (un solo giorno) un nuovo documento. L’imputato aveva raggiunto altre volte gli USA dal check point di Nassau, Bahamas, e per questo motivo non era stata posta alcuna stampigliatura sul passaporto italiano. L’imputato aveva registrato una prenotazione su un volo Alitalia da Palermo per Miami il giorno dopo l’omicidio, anche se questa circostanza non era mai stata acclarata in modo definitivo.
Insomma, c’erano tutti i presupposti per
promuovere un processo indiziario per omicidio e la commissione
rogatoria era l’unico strumento investigativo adeguato allo scopo. Fu in quel contesto che, come dicevo, ritrovai Chico Forti. Il Consolato, allora, era in una singolare fase di transizione. Il console era stato trasferito in un’altra sede e il suo successore non era stato ancora nominato. Da diversi giorni si aspettava quella nomina, anche perché una serie di questioni importanti, che riguardavano la grande comunità degli italiani residenti in Florida, attendevano soluzioni immediate. Un dirigente di cancelleria piuttosto esperto gestiva gli affari correnti con grande competenza. Da lui appresi qualcosa che non mi sarei mai aspettato di sentire. «Abbiamo un problema veramente grande, dottore. Vorrei un suo parere tecnico», mi disse. «Mi sarebbe di grande aiuto. Ho contattato il Ministero degli Esteri, ma anche loro hanno investito della questione il settore affari legali che è retto da un magistrato. Così mi sono detto se forse era opportuno approfittare della sua presenza per esporle un caso che… beh… non so come andrà a finire, se continua così». Il dirigente era visibilmente preoccupato. «È duro ammetterlo», proseguì, «però qui non c’è particolare sensibilità alla questione… anzi, direi che si ottengono reazioni negative se solo si affronta l’argomento. Troppi crimini, troppi fatti di sangue, troppe armi e tanta voglia di non tollerare più nulla… Qui non siamo nell’America del Sud, ma – mi perdoni la semplificazione – nel “sudamerica”, cioè nella zona meno sicura e controllabile del continente latinoamericano. Qui si parla spagnolo e ci sono più banche che uomini. L’esigenza di ordine e sicurezza è l’altra faccia della medaglia dello sviluppo economico. Non mi sento neppure di biasimarli. Vivo anch’io in Florida da diversi anni e a volte mi faccio prendere dalla voglia di scorciatoie facili… L’affare Versace, poi, ha scosso le coscienze. È come se quei colpi a Ocean Drive fossero stati esplosi vicino alle orecchie di ognuno dei milioni di abitanti di questo Stato». Questa fu la premessa. Poi sentii quattro parole molto pesanti. «Possibile pena di morte», scandì il dirigente del Consolato. «Siamo alle prese con un problema di vita o di morte. Suppongo che non avrà mai trattato la questione prima d’ora, dottore». Chiaramente non era cosa da poco né materia di trattazione nella giurisprudenza italiana. Almeno quella del dopoguerra. Spesso nel nostro codice penale si leggono ancora le parole è punito con la morte, ma subito dopo c’è scritto: sostituita con la pena dell’ergastolo. Per il diritto italiano la questione è veramente teorica e limitata a pochi casi previsti del codice penale militare in tempo di guerra. Anche se alcuni miei colleghi ne avevano invocato la reintroduzione dopo le stragi degli anni 1992 e 1993. Lo spiegai al dirigente. Ammisi, insomma, di non essere un esperto della materia e nemmeno un cultore «e non perché non abbia letto Cesare Beccaria e il suo trattato Dei delitti e delle pene», aggiunsi, «ma perché, a mio avviso, l’unico modo per espiare è restare in vita, con tutto il rimorso, con tutto il dolore, con tutta la pena possibile. La morte mi sembra una fuga dall’espiazione. Significa quasi fare un favore al criminale. Per questo sono contrario alla pena di morte e non perché ritengo che la pena in genere possa rieducare chi si è macchiato di crimini orrendi contro persone innocenti». Il dirigente del Consolato mi ascoltava con attenzione. Continuai a spiegargli qual era il mio punto di vista su quella questione delicata: «Bisognerebbe coniare un termine peggiore di terrorismo per indicare alcuni criminali del nostro tempo. Alcuni tra loro, più che terroristi, sono orroristi. Per questi, la pena di morte può essere solo una rapida via di scampo dalla loro responsabilità». «Già… pigiama a strisce, palla di piombo al piede e lavori forzati». «Questa è una semplificazione, ma mi sento di sottoscrivere l’assunto». «Purtroppo non dobbiamo occuparci di questo… Se così fosse saremmo a cavallo», disse il dirigente allargando le mani. «Invece, se ho ben capito, siamo proprio a piedi…». «L’ha detto. E, nel caso specifico che le ho accennato, non so neppure da dove cominciare il cammino». «Proviamoci…». «È probabile che un nostro connazionale possa venire condannato a morte. Per il crimine di cui è accusato non è esclusa la sedia elettrica. In Florida usano ancora questo “strumento”, se così lo si può definire. Questo detenuto italiano è accusato di omicidio. Avrebbe ucciso un cittadino australiano, qui a Miami. Il quadro delle cose si può sintetizzare così: molti errori dell’imputato, la sua negazione ostinata di ogni coinvolgimento nel delitto, l’atteggiamento della pubblica accusa, l’andamento del processo, una serie di elementi indiziari concordanti, univoci e convergenti… Direste così voi magistrati italiani, non è vero? Insomma, tutti elementi che affermano la sua responsabilità. E poi c’è il mood della gente che si riflette nelle possibili decisioni della giuria…». Mood… Come andrebbe tradotta esattamente la parola mood? Glielo chiesi. «È il sentire comune, l’intendimento generale di una comunità in un particolare momento… ne accennavo prima: qui c’è tanta voglia di zero tolerance e le giurie sono composte da giudici popolari. Il magistrato può fare poco o niente. Lui è soltanto l’arbitro del processo, ma il giudizio finale spetta alla gente, al popolo d’America. E nell’animo di questo popolo c’è un mood stanco di violenze con una cieca, quasi rabbiosa, voglia di giustizia, difficilmente votata all’approfondimento critico delle circostanze». «Ma esiste anche il ragionevole dubbio! Beyond any reasonable doubt… non si dice così? Non trova che questa sia un’ottima barriera contro ogni arbitrio e ogni errore?». «In teoria lo è… ma René Descartes è nato in Francia. Non so neppure come si possa tradurre in americano il suo dubito ergo sum. Questo è il paese dell’eccellenza. Nel luogo in cui si pratica l’eccellenza calvinista è difficile trovare spazio per l’umanesimo latino. Insomma: processo, indizi circostanziali pesanti, tradizioni culturali e momento storico. Non ci sono prove incontrovertibili, ma l’imputato si è compromesso con una serie di bugie e contraddizioni che lo hanno fatalmente indiziato come responsabile del delitto. Tutto marcia contro il nostro connazionale. L’imputazione è di quelle terribili: omicidio di primo grado. Non so se Forti è colpevole, ma ha tre figli piccoli. E io provo una gran pena». «Forti?». «Sì… E’ questo il suo nome… Forti». Il nome cominciò a frullarmi nella testa come se fosse rimasto per tutti quegli anni appeso a un gancio, a una specie di appiglio nel cervello, e d’un tratto da quell’uncino si fosse staccato, piombando per terra con un tonfo. «Forti… Enrico». «Sa se è un appassionato di windsurf?». «Sì. Ne è un professionista, anche se qui in Florida non è un elemento distintivo. Migliaia di persone si dedicano al surf, da queste parti. Le spiagge di Miami sono la mecca dei surfisti». La mia curiosità cresceva. «Ha idea di dov’è nato questo Forti?», domandai. «No, ma posso dirglielo subito». Il dirigente del Consolato si diresse verso un mucchio di carte che stavano su una scrivania. Si mise a cercare. «Dunque, ecco, sì, è nato a Trento». La singolare circolarità dei percorsi umani mi si manifestò d’improvviso. Pensai che qualcosa o qualcuno aveva progettato quello strano campo di regata esistenziale. Tornavo sulla stessa boa con una diversa andatura, parallela a quella di otto anni prima. Ero di nuovo al lasco dello sconosciuto windsurfista chiamato Chico. «Perché mi ha chiesto dov’è nato? Lo conosce?», volle sapere dopo poco il dirigente. «Non posso dire di conoscerlo. L’ho visto una volta sola. Pochi istanti, tragici. Momenti che è difficile dimenticare. Le sembrerà strano, ma mi ha raggiunto a mare, a Palermo, per annunciarmi l’assassinio di Paolo Borsellino». «Già. Proprio una strana coincidenza…». Approfondire la vicenda Forti mi interessava. Tornai a offrire il mio aiuto al dirigente del Consolato. «Mi dica: come posso darle una mano in questo caso?». «Dal punto di vista strettamente processuale né io né lei possiamo fare nulla». «E allora?». «Le parlerò con estrema franchezza… da funzionario dello Stato a magistrato, e senza partigianeria o preconcetti legati al fatto che io e lei siamo italiani, e anche Forti lo è. Io non so se Forti sia colpevole o innocente. Anche perché sulla base di quello che ho capito leggendo i giornali e le carte che abbiamo ricevuto dalla famiglia è difficile farsi un’idea precisa. Ma questo è un problema della giuria e non del Consolato d’Italia a Miami. Ciò che non comprendo è se può accadere che un cittadino italiano sia sottoposto a una condanna che il nostro ordinamento non prevede». «La condanna a morte». «La sedia elettrica», sottolineò ancora il dirigente, annuendo. «Forse questo non è il caso. Ma la legislatura americana prevede, per l’omicidio premeditato di primo grado, questo tipo di condanna. Le cose sono complicate da una serie di circostanze. Enrico Forti è cittadino italiano ma risiede qui da diversi anni. Ha sposato un’americana. Il crimine è stato commesso in territorio statunitense. La competenza giurisdizionale dello Stato della Florida è fuori discussione. Di conseguenza, le regole punitive sono quelle proprie del processo americano. Siamo fuori da ogni possibilità di esenzione o attenuazione… Eppure deve esistere un sistema giuridico che può salvare questa persona da un’eventuale condanna a morte. È una cosa che mi fa arrovellare da giorni e giorni». « È il lavoro dei giuristi quello di arrovellarsi…». «Sarà, ma di complicazione ce n’è un’altra: l’atteggiamento di Forti, che giudico al limite dell’autolesionismo. Avrebbe potuto accettare di patteggiare una pena. Qui il patteggiamento lo chiamano plea bargain. È una scelta pesante, lo capisco, ma per il momento lo avrebbe messo al riparo dalla condanna a morte. Invece, nulla di tutto questo». Ci pensai su per un attimo poi formulai un’interlocuzione forse vana. «Beh, non si può certo imporre all’imputato di dichiararsi colpevole». «Ma neppure perseverare nella tesi che tutto il processo è frutto di un complotto ordito da non si sa bene chi per punire l’imputato per il suo interessamento al caso Versace». «Comincio a perdere il filo... Che rapporto c’è tra il processo al Forti e l’omicidio di Gianni Versace?». «Bisognerebbe chiedere al diretto interessato. Alludo – e mi lasci passare un po’ di ironia becera – a quello tra i due che ancora può parlare, anche se non so per quanto ancora potrà farlo». «E Forti cosa dice a questo proposito?», chiesi. «Che tutti i suoi guai sono cominciati il giorno in cui ha deciso di raccontare la vera storia del delitto Versace. O meglio, del suo assassino, Andrew Cunanan. Forti è una specie di produttore cinematografico, un movie maker, come si dice da queste parti». «Non male per un italiano che si è trasferito qui da meno di dieci anni». «Intendiamoci, dottore, non è mai stato un produttore stile Hollywood. Faceva pellicole sugli sport estremi. Insomma, un documentarista che organizzava anche eventi sportivi. Sì, non male… un intraprendente, soprattutto in un Paese in cui l’intraprendenza e la voglia di creare sono la colonna portante della struttura economica. Proprio questa sua intraprendenza gli ha fatto credere che fosse un grande affare l’acquisto della casa galleggiante dove l’assassino di Versace si rifugiò dopo il delitto e prima di essere trovato morto dalla polizia». «Intraprendenza e fantasia da italiano in trasferta», commentai. «Proprio così. Forti riteneva che sfruttando i diritti delle riprese televisive della casa galleggiante poteva fare… mi scusi la battuta… una barca di soldi. Il proprietario della house boat era un tedesco. E qui la vicenda comincia a complicarsi terribilmente». «I complotti non sono mai semplici. Sarebbe una contraddizione in termini». Il dirigente del Consolato annuì: «È vero. Ma in questo caso non si capisce per quale motivo qualcuno dovesse tendere a Forti una trappola probatoria così perfetta da costargli la pena di morte». «Non mi stupisco. Dalle mie parti, in Sicilia, certe cose sono successe anche più spesso di quanto si possa pensare. E con modalità a volte incomprensibili a chiunque, tranne che alle menti raffinatissime che hanno portato avanti quel gioco con ferocia e determinazione». Il dirigente ammise di trovarsi fuori dall’ambito delle sue competenze e delle sue possibilità. «Vorrei essere chiaro», disse. «Non le chiedo di entrare nel merito delle questioni, ma vorrei il suo aiuto nell’esame del semplice problema di cui le ho già parlato: un cittadino italiano può essere condannato a morte presso la giurisdizione di un altro Stato?». Restai a lungo a pensarci su. La cosa, in effetti, aveva un enorme rilievo giuridico. Chiesi al funzionario di poter consultare la raccolta delle convenzioni internazionali e presi molti appunti su alcuni articoli specifici. La lettura, in quello che i giuristi chiamano combinato disposto, ossia nel rapporto comparativo, appariva ostica e contraddittoria. Il funzionario mi osservava in silenzio, quasi con compassione. Dopo qualche minuto mi si avvicinò e disse: «Veda, dottore, le cose sono ulteriormente complicate da un’altra circostanza…».
***
Non riuscivo a immaginare una complicazione ancora più complicata di quella che avevamo sotto gli occhi. Eppure c’era, esisteva. Aveva a che fare con qualcosa che in diritto internazionale si studia fin dai primi giorni. È la reciprocità. Volgarmente la si può sintetizzare con questa regola: puoi fare agli altri ciò che gli altri hanno fatto a te. Ma restava da capire in che modo la reciprocità potesse condizionare il caso della possibile condanna a morte di Chico Forti. «Forse il boia di Miami ha qualche conto in sospeso con il governo di Roma? ». La battuta centrava una questione davvero delicata. In effetti esisteva un vecchio conto in sospeso che atteneva alla reciprocità. Nel giugno del 1996 la Corte Costituzionale italiana aveva dichiarato illegittimi alcuni articoli del trattato bilaterale Italia-USA che consentivano la possibilità di consegnare un cittadino italiano alla giustizia americana nel caso di reati gravi come l’omicidio, in favore di Stati che avessero contemplato la pena di morte. A Miami quasi tutti ricordavano alla lettera quella pronuncia, perché riguardava proprio un uomo con la doppia cittadinanza, imputato di omicidio e atteso lì per essere giustiziato sulla sedia elettrica. Ma l’imputato non arrivò mai. La Corte Costituzionale italiana lo salvò dalla pena di morte. La decisione era ineccepibile secondo le nostre leggi e secondo i principi espressi nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo varata dalle Nazioni Unite, organizzazione, quest’ultima, partecipata anche dagli Stati Uniti d’America. «Sì… posso condividere con lei il principio», disse il dirigente del Consolato. «Ma ripeto: oggi in favore degli Stati Uniti deve essere ammessa la prerogativa della reciprocità. Brutto a dirsi, ma è una specie di “occhio per occhio, dente per dente” di livello internazionale. Una cosa del tipo: mi hai sottratto un assassino? Perfetto! Io ti brucio quest’altro. Come vede, dottore, la questione Forti diventa solo un tassello di uno scenario internazionale più vasto, più complesso, ed è facile che il nostro connazionale rimanga letteralmente bruciato». E questo non era tutto. Sullo scenario internazionale, andava posizionato un altro tassello, qualcosa che pesava su quell’affare come un macigno. Anzi, rafforzando la metafora, pesava «come tutto il massiccio alpino», aggiunse il dirigente. Alludeva alla tragedia del Cermis, vicino a Trento... «Chiamiamola tragedia per convenienza», sottolineò. «Ma tale proprio non fu…». «La definizione più esatta è strage…». «Strage o tragedia… su questa differenza concettuale tra gli italiani e gli americani è conflitto strisciante e senza esclusione di colpi». «Sia più esplicito. Mi interessa la sua opinione su questo aspetto». «Ci provo, ma vorrei riuscire a separare le verità dalle congetture. E non è facile». Posai le carte su Forti che avevo in mano e lo guardai. «L’ascolto», dissi ripensando al 3 febbraio 1998, quando un aereo da guerra americano, in esercitazione sulle Alpi, aveva tranciato di netto un cavo della funivia del Cermis uccidendo venti persone. «Riguardo a quella strage, dopo qualche mese gli americani chiusero l’inchiesta contro quei militari che durante un’esercitazione avevano fatto precipitare la cabina», mi ricordò il dirigente del Consolato. «Ma gli italiani non ritenevano che la partita fosse chiusa e fu proprio la Procura della Repubblica di Trento a promuovere un’azione contro il colonnello Durigon, che era il responsabile militare della base di Aviano. E il braccio di ferro tra la giustizia italiana e le più alte sfere della gerarchia militare americana durò per un bel po’ di tempo». «Un siciliano direbbe: sembra fatto apposta». «Già. Questa singolare contestualità degli accadimenti sembra disegnata a tavolino. Proprio negli stessi giorni in cui infuriava la polemica sul Cermis con la Procura di Trento, un cittadino italiano, nato e già residente in quella città, fu coinvolto in un caso di omicidio proprio qui, negli Stati Uniti...». Il mio interlocutore fece una lunga pausa. Poi riprese: «Chiaramente, le due vicende non hanno nulla in comune, ma si collocano in un quadro di rapporti internazionali molto aspri, in cui il dialogo diplomatico diventa davvero difficile». «Mi pare evidente». Ripresi in mano le carte e ricominciai ad annotare appunti sotto il suo sguardo perplesso. «Io l’ho già fatto questo stesso lavoro», disse dopo poco. «Purtroppo, però, niente sembra incontrovertibile e, viceversa, solo sotto l’aspetto dell’estradizione…». Fu questa la parola che produsse in me l’effetto esplosivo dell’intuito. Una specie di password della ragione che d’improvviso e quasi magicamente riusciva a collocare tutti i tasselli al posto giusto. Estradizione: ecco che cosa avrebbe salvato la vita a Enrico Forti. «L’estradizione è la salvezza». «Prego?». «È questo il motivo per cui l’imputato non correrà il rischio di subire una condanna a morte. L’articolo 9 del nostro codice penale», dissi d’un fiato: «Il vostro ufficio deve inviare una nota formale al Ministero della Giustizia italiano segnalando il fatto, perché il cittadino sospettato di aver commesso un delitto all’estero è pur sempre soggetto alla giustizia del nostro Paese. Se il Ministro italiano richiede di procedere, va da sé che l’imputato deve rimanere in vita proprio per essere sottoposto a giudizio in Italia. L’estradizione potrebbe essere negata, ma di certo il dovere dello Stato italiano di agire penalmente e il diritto dell’imputato di difendersi nel processo non possono essere preclusi con la sua soppressione». Inspirai a fondo. Poi aggiunsi: «Lo so, è un paradosso, ma potrebbe funzionare». «Suggestivo…», disse il mio interlocutore con lo sguardo sorpreso. «Sì, mi rendo conto che fa un po’ Shakespeare… un pizzico di saggezza in questa follia… però, ripeto, potrebbe funzionare». «Comunque sia, è una carta da tentare e la tenteremo».
***
Non saprò mai se Enrico Forti deve la sua vita a quel pizzico di saggezza giuridica lanciata come un amo nell’oceano infinito della possibilità e dei suoi contrari. Quello che posso dire è che vale la pena raccontare questa storia. Raccontarla tutta. Questa storia va raccontata per comprendere in che misura la giustizia può ancora funzionare come strumento di ricerca della verità e articolazione della ragione. Il caso Forti è forse la migliore palestra per questo esercizio teoretico. Per il sistema processuale americano si può condannare solo se la responsabilità dell’imputato è affermata oltre ogni ragionevole dubbio. Ma cos’è il dubbio? È giusto dubitare di un accusatore che afferma di non avere bisogno di provare che l’imputato è l’assassino per dimostrare che quello stesso imputato è il colpevole? Ho letto decine di volte questa frase. Non ne ho mai capito il contenuto, né in fatto né in termini di valore giuridico. (Inserito a pag.7) È giusto dubitare di un accusatore che, per farti confessare un omicidio, se ne inventa (e ti accusa di esserne il responsabile) un secondo che, invece, non è mai esistito? Nel capitolo “La trappola” leggerete che questo è realmente accaduto. È giusto, infine, dubitare di un sistema che non prevede la motivazione scritta della sentenza di condanna e che attribuisce al popolo, in modo sostanzialmente irrevocabile, il diritto di vita o di morte sull’imputato? Mi accingo a raccontare questa storia con la consapevolezza che alla fine, ma proprio alla fine delle cose, sarete voi i supremi giudici, visto che la legge americana, se non vi sarà revisione del caso, ha già deciso che Enrico Forti, detto Chico, resterà in prigione per tutta la vita. Continua...
I fatti |
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7 novembre 2006